Margrit Tröhler in merito a "Babylon 2"

Questo film-documentario d’essai degli anni ’90 non ha perso proprio nulla del suo potere esplosivo: si concentra sulla questione dell’identità culturale dei figli degli immigrati. I loro genitori, i loro nonni sono emigrati in Svizzera da paesi quali Italia, Turchia, Spagna, Tunisia, Ungheria, Giamaica… I bambini sono cresciuti qui e, per quanto attiene le nuove generazioni, sono nati addirittura come stranieri di seconda generazione, i cosiddetti “secondos”. Essi riflettono sulla loro situazione tra culture e lingue diverse, dichiarano di sentirsi “metà e metà”, come Samir, che racconta la propria storia come figlio di genitori emigrati in Svizzera dall’Iraq. Nonostante oggi lo spettro dei paesi di origine sia più ampio, i temi del vivere negli agglomerati urbani, dell’appartenenza e della partecipazione politica, del razzismo quotidiano… sono tuttora attuali. Quando il film mostra le identità patchwork come modello futuro di migrazione globale, emerge il concetto del ruolo d’intermediazione dei giovani e del loro rapporto con i media, sia attraverso la musica, che l’arte, il linguaggio e i canali audiovisivi.

In quanto affermazione creativa di ibridità culturale, “Babylon 2” è una costruzione autoriflessiva, che coniuga interviste e reportage con momenti di fiction e messinscena, esplorando nel contempo le possibilità tecniche dell’immagine video (BETA) e del montaggio digitale (AVID). In diversi scorci di film compaiono foto di famiglia, estratti del cinegiornale, citazioni cinematografiche, riprese in super 8 e 16mm, che, quasi come se fossero “intarsi”, vengono abilmente orchestrati in un mosaico polifonico grazie a font e frammenti sonori, uscendo così dall’unidimensionalità dell’immagine.